Quando, oramai parecchi anni or sono, varcai la soglia di Palazzo Malvezzi per discutere la tesi in processuale amministrativo, non avrei mai immaginato che mi sarei trovata a seguire, confusa e felice, il professor Antonio Faeti in un freddo pomeriggio di inverno bolognese e a scoprirmi entusiasta erede di Cappuccetto Rosso in un percorso evolutivo di sopravvivenze.
Lo spunto, uno di quelli che ancora la città di Bologna offre a chi cerca vie alternative di conoscenza, una lectio magistralis tenuta dal professor Faeti, col supporto della professoressa Bernardi, in un teatro Testoni pieno di adulti riunitisi a rendere omaggio alla Letteratura per l’Infanzia e a Wolfango, un illustratore che ne ha fatto la storia con il suo stile e la sua identità di artista colto.
Smarrita dall’assenza di giuristi, non è stato difficile ritrovarsi, perché, a cercare e a farlo bene, Cappuccetto Rosso passa, è passata e passerà per le vite femminile che vanno oltre, che non si fermano alle imposizioni del materno, a quel dito puntato addosso quale ammonimento, quale suggeritore di pene severe congiunte a possibili trasgressioni, dipinto da Wolfango in una figura materna simile alla madre di Cristo.
Cappuccetto Rosso, come bene ha spiegato la professoressa Bernardi, è sì il desiderio infantile di accedere all’oscurità del bosco, al non conosciuto, la voglia e insieme il piacere di viaggiare, di scoprire, ma è anche il femminile che si fa conquistare dal desiderio e che per questo esplora, scoprendo pezzi di sé che abbattono il dito, l’ordine costituito delle cose, in nome di un sapere che conduce alla vita cosciente.
Oramai sono nel bosco e, intorno, il teatro ha lasciato il posto alla mia infanzia e alla mia storia di donna in un passaggio in cui il diritto torna in forme rinnovate a dare sostegno a Cappuccetto Rosso che rivendica la sua scelta come atto di libertà.
In fondo, come la lectio ci suggerisce, Cappuccetto Rosso è sorella di Proserpina, è il femminile che si sottrae temporaneamente alla stabilità della terra offerta dalla madre Demetra per affrontare il buio, il mondo di sotto, in una sorta di rito sciamanico di iniziazione, un rito cannibalico che passa dalla forza e dallo scarto dell’identità maschile, dalla “lupitudine”, per dare modo alla donna di ricongiungersi alla saggezza degli avi e di farla propria, di interiorizzarla, senza necessità di imposizioni.
Riportata al presente e felicemente spiazzata dalle mutevoli voci del professor Faeti che legge Stefano Benni e Sergio Tofano, che legge Giorgio Soavi e Marie-Louise Von Franz, allieva di Jung, mi perdo tra le mille identità vocali di questo in apparenza burbero signore, che tanto mi ricorda il dualismo dei mostri selvaggi di Maurice Sendak, laddove un mostro non è mai solo un mostro, e torno alla complessità della vita e della storia che si sta narrando, mi immergo, dietro alla sua voce, nei colori e nelle scelte di Wolfango e incomincio a ritrovarmi, seppur nell’apparente “caos”.
Se la fiaba è dominata dal principio di variazione che apre le porte a una moltitudine di significati e se essa trae spunto da ciò che noi non riusciamo a vedere, ma che c’è, dalla vita insomma, forse anche la storia di chi scrive può essere una fiaba e ogni suo pezzo può trovare il suo incastro e il suo senso.
Diritto e fiabe, a ben guardare, possono darsi la mano, almeno per il tempo necessario a Cappuccetto Rosso a contestare l’autorità in nome di un diritto inviolabile, quello di vivere la vita che più gli appartiene, che più ci appartiene.
Alessandra Bartucca, allieva master Accademia Drosselmeier 2015/2016
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