Trascrivo le parole di Eugenio Montale, scritte nel 1962, a proposito di un romanzo che vinse il Viareggio e che fu poi tradotto in diversi Paesi: “ Supponevamo, noi lettori per obbligo, di aver tra le mani un libro, un oggetto del tutto degno delle esigenze del “mercato”, e ci siamo accorti invece che l’oggetto era alquanto diverso e più preoccupante del previsto; e che, anzi, non era neppure un oggetto. Credete proprio che un incontro simile, ai tempi che corrono, sia frequente?”. Sono di nuovo dinnanzi all’Arcipelago Toscano, in compagnia del romanzo di cui parla Montale e di un grappolo d’uva da poche ore raccolto dalla vigna (forse un sangiovese per fare il Morellino). L’edizione de Il giardino dei Finzi- Contini che sfoglio è del 1964 ed è la sesta. In copertina Nicolas de Stael e di fronte a pag. 88 l’acquaforte Campo da tennis, di Giorgio Morandi (1923). Perché ho ripreso in mano Bassani? Per tre giorni sono stata in compagnia del romanzo per adulti, di Andrea Molesini, conosciuto prima come poeta, traduttore, narratore per ragazzi. Come quando si ascolta la musica, anche i romanzi si “riascoltano”, per coglierne a pieno la composizione, le parole, le pause, gli attacchi. Inconsapevolmente volevo riascoltare Bassani alla luce, o, meglio, al suono di Molesini. Sento un forte legame fra i due romanzi, ritrovo un filo con la grande tradizione italiana della scrittura colta, classica. Sempre dall’edizione einaudiana di Bassani trascrivo poche righe di Carlo Bo che si possono scrivere in quarta di Non tutti i bastardi sono di Vienna: “Siamo di fronte a uno scrittore che non si limita a cercare il successo facile, comodo quale l’industria letteraria propone, ma a uno scrittore che tenta un’operazione molto più ricca, ritornando sulla strada del romanzo classico che è poi il romanzo semplice.”
Entrambi, Bassani e Molesini, usano il termine “sterpa” per indicare la cassetta a due posti dove siede il cocchiere. Entrambi aprono con un preludio e con un prologo, entrambi, a par mio, scrivono con estrema precisone storica, pur trattandosi per Molesini di un racconto di immaginazione. Il romanzo di Molesini ha inizio nel novembre del 1917. Paolo, il protagonista, è un ragazzo che si prepara a diventare uomo mentre intorno a lui infuria la Grande Guerra. Non è in trincea, ma nelle retrovie, accanto al Piave, in una villa occupata dai nemici. Taccio di tutta la vicenda e riporto una pagina che ho sottolineato quale testimonianza utile alla pedagogia della lettura. “Poi, non so come, parlammo di libri, e il discorso cadde su mia madre, che leggeva per farmi addormentare. Sapevo già leggere bene a cinque anni, ma mi piaceva che i libri mi venissero letti. Non credo fosse solo pigrizia, è che mi piaceva il suono della voce di mia madre, e il modo in cui mi faceva sentire la presenza dei personaggi, la loro paura, la loro forza. Le chiedevo di leggere anche a nove, dieci anni. Lei si divertiva, spesso inventava, fingendo di seguire il libro per filo e per segno. Io la lasciavo fare, non protestavo, tranne quando cercava di addolcire certe crudeltà che invece mi davano grande piacere. Secondo la zia tutti i libri degni di questo nome raccontano un andare continuo che assomiglia al luccicare dell’acqua dei fiumi. “ Non è la meta del viaggio che conta…io non leggo per sapere come va a finire…quel luccichio che mi acceca lungo la strada, è quello che mi piace…” Il romanzo, giunto alla sesta edizione in poco tempo, partecipa al premio Campiello. Auguro ad Andrea una meritata vittoria e auspico che la storia del giovane Paolo entri nel novero delle letture obbligate alle scuole superiori.
Grazia Gotti
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