Sebbene sia noto ai lettori di narrativa fantastica e per l’infanzia che fra favola e fiaba ci sia una differenza abissale, e nonostante l’immaginario di Beatrice Solinas Donghi attinga a piene mani dal fiabesco e non dal favolistico, come l’autrice stessa racconta nell’importante saggio La fiaba come racconto, ho pensato lo stesso a questo titolo per sintetizzare il senso del mio viaggio-omaggio alle parole e alle trame di questa importante autrice italiana, che oggi veleggia verso gli ottantanove anni.
Se “morale” deriva dal latino "mos, moris" – uso, costume– in ogni favola o racconto si possono mettere in luce usi e costumi che si traducono in azioni concrete, e che talvolta svelano più di tanti così detti “messaggi”. Nelle storie di Solinas Donghi, autrice con il dono di uno stile tutto suo, ricorrono in particolar modo alcuni usi e costumi che la letteratura per ragazzi contemporanea sembra aver messo da parte: largo all’esercizio delle virtù domestiche, all’intraprendenza che vince la pigrizia, ai personaggi d’ingegno ma senza malizia. Ma anche all’avventura a portata di bambino, la fughe da casa, la ricerca di tesori inesistenti, la scoperta e la condivisione di segreti. Se il beniamino dei lettori di oggi è “la schiappa” che osserva il mondo che lo circonda con ironia, ma senza muovere un dito se non quello che comanda il joystick, gli eroi e le eroine –soprattutto eroine- di Le storie di Ninetta, Quell’estate al castello, Il fantasma del villino, Alice sulla strada, La gran fiaba intrecciata, Sette fiabe dentro una storia, Le fiabe incatenate, solo per citare alcuni titoli, osano, rischiano, si cimentano con le esplorazioni, il commercio, le faccende di casa, la cucina, il taglio e il cucito... un ricco campionario di situazioni, nessuna delle quali fuori dalla portata dei più, ma tutte cariche di possibilità.
Intendiamoci però: niente prediche, niente morale finale sui valori di una volta contrapposti a quelli di oggi, che farebbe tanto insegnamento pedante. Quelle di Solinas Donghi sono “solo” storie, in cui si incatenano azioni fantastiche e scene quotidiane, il cui gusto un po’ nostalgico è omaggio sincero alla tradizione letteraria del racconto polare e del romanzo d’appendice, piuttosto che al passato storico.
Se ne La fiaba come racconto Solinas Donghi fa simpaticamente piazza pulita delle interpretazioni etnologiche o psicologiche della fiaba, riconducendola alla sua essenza di racconto che procede in un “succedersi di aspettative realizzate e di sorprese prevedibili come rime: di tensione e risoluzione, sistole e diastole”, ecco che sfruttarne i topoi –luoghi fisici, struttura, prove da superare, agnizioni, numeri, caratteri e ruoli- assicura alle fiabe d’autrice l’efficacia narrativa che i secoli hanno limato e consolidato.
Altro grandissimo “serbatoio di destini” è il romanzo d’appendice, divorato con gli occhi dalla Beatrice lettrice bambina (non a caso le protagoniste dei romanzi di ambientazione novecentesca, la cui biografia scorre in parallelo con quella della loro autrice, si professano divoratrici di polizieschi e feuilleton), e ricostruito con intelligenza da Solinas Donghi l’autrice colta e consapevole. Il piacere di scoprire questo universo di rimandi letterari sarà tutto dei lettori, con qualche piccolo suggerimento da parte mia.
Se volete conoscere più da vicino le storie di Solinas Donghi, mettetevi comodi nell’angolo della vostra casa o del giardino che amate di più, in un pomeriggio di fine estate, con un bicchiere di tè in una mano (Solinas Donghi ha origini squisitamente anglosassoni) e Le storie di Ninetta nella’altra.
Bambina senza epoca, che non appartiene propriamente al mondo della fiaba ma nemmeno a quello frenetico della vita di città, Ninetta abita con la nonna nell’ultima casa del paese, quella vicina al bosco che conduce nel territorio del fantastico, dell’inesplorato. Lì incontra sì la maga Euforbia Parrucca, l’Uomo Selvatico, il bebè Gigante, ma rimane al tempo stesso bambina molto concreta.
Nelle sei brevi avventure che compongono il libro, adatto ai lettori a partire dal primo ciclo della scuola primaria, Ninetta viene fatta prigioniera nella casa della signorina Euforbia (che “si vede che era anche un po’ maga. Non per niente abitava nel bosco”, dice l’autrice), dove le tocca di imparare la ricetta della marmellata di marroni, a fare la maglia, a spolverare come si deve; dall’Uomo Selvatico apprende una ricetta alla “scotta dita” per cucinare i pesci fritti in padella; diventa abile babysitter del bebè figlio della Gigantessa. Per non parlare di tutti i lavori che le assegna lo zio Gerolamo nel divertente racconto “Il gerolamese”: preparare la minestra, tenere pulita la casa, rammendare i calzoni… quale bambino di oggi accetterebbe di svolgere tutti questi compiti, e per di più senza piantare un capriccio?
Ma proprio il capriccio, il rifiuto, l’insofferenza, farebbero arenare il racconto: chi se ne importerebbe di una Ninetta che se ne torni dalla nonna a lamentarsi dei maltrattamenti subiti, che si rifiuti di mettere il naso fuori di casa e se ne resti tutto il giorno stizzita a rimuginare e girarsi i pollici!
C’è chi, invece, maltrattata e offesa ingiustamente da una zia, scappa di casa e si mette in cammino da sola per raggiungere la mamma, con tutte le controindicazioni del caso per quanto riguarda la sicurezza, ma con gran guadagno per il racconto e per il piacere dei suoi lettori, che avranno da nove anni in su!
È Alice, la protagonista di Alice sulla strada e dei seguiti Alice e Antonia e Alice e le vecchie conoscenze, che, a differenza di Ninetta, appartiene a luogo e ad un tempo ben precisi e documentati: l’Inghilterra dell’Ottocento, come raccontata dal reporter britannico Henry Mayhew nelle sue inchieste sulla condizione dei poveri sotto il regno della regina Vittoria; il romanzo, così come la fiaba, non trascura di parlare ai bambini dei loro coetanei, che, secolo dopo secolo, sono nati e cresciuti in condizioni molto sfavorevoli.
Un rovescio di fortuna economico occorso al padre costringe Alice a trasferirsi in campagna dagli zii ricchi, mentre i genitori affrontano un faticoso trasloco verso la caotica Londra. La differente condizione economica fra le due famiglie si fa sentire, e alla bambina viene elargito un trattamento crudele in occasione di uno spiacevole incidente domestico. Accusata ingiustamente dai parenti acquisiti, come capita solo agli “orfani” –anche solo quelli temporaneamente separati dai loro genitori- per avere rotto un servizio da tè in porcellana mentre cerca soccorrere la cuginetta in pericolo, Alice non si sottomette e va alla ventura con incoscienza e fiducia nel prossimo, imbattendosi in criminali, saltimbanchi, poliziotti e mendicanti. È proprio vero che per fare gli incontri più interessanti i bambini devono sottrarsi al controllo dei genitori!
Altri zii malvisti, altra madre lontana, altra fuga da casa: in Quell’estate al castello Ippolita, un’altra bambina testarda e volitiva, si convince che i parenti la vogliano tenere lontana dalla madre tanto ammirata quanto lontana, e progetta un’esotica fuga a Parigi con al complicità dell’amica Gina, che ci narra gli avvenimenti in prima persona. È l’apice di un’estate trascorsa alla spasmodica ricerca di avventure che scalfiscano l’indolenza di giornate che si ripetono tutte uguali, fra cartoline, cruciverba, corse in bicicletta, nuotate.
Un’altra estate, altre nuotate allo stagno, la stessa indolenza: ne Il fantasma del villino è la Storia con la s maiuscola ad irrompere nelle giornate che Lisetta e la sua famiglia trascorrono da sfollati in un paese sulle montagne lombarde. Se buttiamo un occhio fra le pareti domestiche, all’interno delle quali si muovono i personaggi, possiamo scorgere la mamma di Lisetta intenta a far cagliare il latte con il sale triturato e ottenere un formaggio casereccio, da mangiare insieme alle patate bollite; Lisetta e il fratellino Fredo che raccolgono tutte le susine del frutteto, da trasformare in marmellata o far essiccare, per spedirle al padre prigioniero in Polonia. Più lontano, lo scontroso zio Gustin prepara gli gnocchi di patate per i partigiani nascosti sulle montagne; e nel villino “maledetto”, la signorina Luisa Rebaudi, insegnante in vacanza, rispolvera un vecchio guardaroba, per vivacizzare i pomeriggi che Lisetta trascorre a casa sua per le ripetizioni… e insieme ad esso una vecchia storia di fantasmi! Peccato che la giovanetta pallida vestita di raso incontrata dalla protagonista non sia un’apparizione spettrale, ma una ragazzina ebrea da tenere nascosta a tutti i costi.
Le sistole e diastole che battono il ritmo di questi due romanzi lunghi di Solinas Donghi, sono la noia e l’avventura, che si annidano entrambe nella vita quotidiana. Ogni lettrice e lettore di dieci/undici anni avrà sperimentato le stesse sensazioni e potrà riconoscervicisi:
Si era in tempo di guerra. Sembravano emozionanti e avventurosi, quei tempi, a vederli in televisione [...]. A viverli erano soprattutto noiosi, almeno per una ragazzina (io) che era dovuta sfollare in campagna dalla città […]. (Da Il fantasma del villino)
N.B., che vuol dire Nota Bene: tutto questo succedeva un fracco d’anni fa. Adesso voi magari vi credete che a quei tempi le ragazzine se ne stessero lì con il fiocco in testa come mummie e che non gli succedesse mai niente di avventuroso. Mica vero. Io il fiocco in testa non l’ho mai portato; be’, da piccola, forse. E di fatti avventurosi ce ne sono successi, a me e a Ippolita. Se non cos’è che racconterei, in questo libro? (Da Quell’estate al castello)
Se ci trasferiamo dall’universo del romanzo al territorio del fiabesco, le protagoniste da bambine si fanno giovani donne e l’avventura diventa impresa. Prendiamo Bella, la sventurata eroina di La gran fiaba intrecciata, che già dal titolo omaggia esplicitamente la tradizione del racconto popolare: cosa non le tocca in sorte! Vittima della classica infrazione di un divieto imposto, da moglie di un principe Bella finisce come povera vagabonda a riordinare un’intera dispensa di pasta asciutta e pastina da brodo (tipica impresa che tocca alle giovani donne delle fiabe popolari), a fare le faccende per conto di dodici briganti e un marinaio, remare in lungo e in largo per i sette mari, per poi finire la sguattera al castello della Regina Leonessa, che le ha rubato lo sposo.
Relegata in cucina, si libera dalla cattiva sorte grazie alla capacità di preparare la più umile delle ricette: la zuppa “stracciatella”. A questo punto spero proprio che i lettori più giovani si domandino che zuppa è: sarà l’occasione giusta per fargli riscoprire, con la complicità di qualche mamma, o nonno, questa prelibatezza a base di brodo con uova e parmigiano grattugiato, sale, pepe, noce moscata. Buon appetito!
Cammin leggendo, passando da una storia all’altra, siamo tornati alle azioni concrete, agli usi e costumi, alla “morale” della favola da cui siamo partiti. Che cosa c’è di più concreto, all’interno di un racconto, degli oggetti maneggiati dai personaggi? Gli ortaggi dell’orto e il chiodo che insaporiscono la zuppa di zio Gerolamo; le cravatte, gli ombrelli e gli occhiali da sole del mercante Baffirossi, che scombina la casa e la vita di Ninetta e della sua nonna. L’uovo di legno con dentro un bottone e l’uovo di gallina con dentro due tuorli e mille altre leccornie che salvano la vita alla Bella. I semi di zucca magici de Le fiabe incatenate, nelle quali si legge anche dell’ago che cuce vestiti da principessa per la povera orfanella, della scopa e dello strofinaccio della Porcacciona, del coltello che taglia la melarosa da cui esce una ragazza fatata, della gabbia per imprigionare le fate. Le annate di giornalini a fumetti rilegati, le borsette e i ninnoli retrò che sembrano essere appartenuti al fantasma del villino nell’omonimo romanzo. La bambola dal vestito di mussola infiammabile che tanti guai, seppur indirettamente, causa alla piccola Alice.
Gli oggetti di uso comune che i racconti di Solinas Donghi rivestono di poteri e ruoli sorprendenti, sono incredibilmente più affascinanti di qualunque armamentario fanta-scientifico o accessorio magico dal nome improbabile che si presenti nella narrativa contemporaneo (penso ad esempio allo strampalato universo di prodotti di consumo in Henry Potter). Essi fanno parte dell’esperienza di tutti i lettori e possono quindi essere “evocati” dalle pagine del racconto e materializzarsi in carne ed ossa, ferro, legno o quant’altro, come ponte fra la realtà fantastica e il nostro reale.
Mi permetto una digressione: a me piace molto giocare con gli oggetti dei libri, e nella mia esperienza di bibliotecaria ho scoperto che diverte anche i giovani lettori. Si possono mostrare loro alcuni oggetti accuratamente scelti prima di iniziare la lettura, e provare ad indovinarne la funzione in base alle suggestioni che il titolo, la copertina e tutte le altre informazioni suggerite dal libro ancora chiuso; ritrovarli successivamente durante la lettura del racconto sarà fonte di piacere per un’aspettativa soddisfatta, oppure di stupore. In alternativa, si può condividere durante la lettura il riconoscimento di un indumento, cibo, giocattolo, utensile, che "fuoriesce” dalla pagine del racconto, comparendo come per magia davanti ai nostri occhi.
Non me ne voglia l’autrice se ho finito col ridurre ad un campionario di mercanzia la ricchezza del suo universo narrativo... Del resto Antonio Faeti, nel fondamentale saggio “Amate sponde” in I diamanti in cantina, parlando di Solinas Donghi, ricorda che “solo chi osserva con attenzione scrupolosissima una collinetta in primavera , e sa descriverla con altrettanta precisione, è indotto a vedere in essa un dimora di elfi e una capanna di pigmei”. L’originalità e l’ingegno non sono solamente nell’invenzione, ma anche nella capacità di osservare scrupolosissimamente un bottone, un ditale, un francobollo, e di leggere in esso il racconto che contiene.
Virginia Stefanini