Succede spesso che le immagini e la memoria mettano in moto la narrazione. Non avrei scritto Il bambino che guarda l'isola se non avessi avuto davanti agli occhi il panorama dell'isolotto di Bergeggi, in Liguria. Un'isola che pare quasi di poterla toccare ma sulla quale è vietato scendere perché da sempre proprietà privata. Allora si scrive una storia anche per poterci andare, in qualche modo.
Ho cercato su internet delle immagini di Bergeggi non appena Guido Quarzo mi ha scritto queste parole. E in un attimo, pur non essendoci mai stata, ho riconosciuto il luogo tanto caro ai protagonisti de Il bambino che guarda l'isola, Emilio e Milo, che ne contemplano il profilo seduti insieme sulla spiaggia. E subito ho sentito una voglia irrefrenabile di partire, così su due piedi, per raggiungere il mare, proprio come accade a Clara, la bambina protagonista di una altro bellissimo romanzo di Quarzo, Clara va al mare.
Perché il lettore di tutte le età, come lo scrittore, come il bambino, non aspetta altro che l’estate per perdersi nel mare delle storie.
Il bambino che guarda l'isola, di recente pubblicazione in casa Salani, è a mio parere la punta di diamante di un anno editoriale ricchissimo per Guido Quarzo, scrittore dall’ampia produzione letteraria. Prima la pubblicazione dell’inedito racconto storico - e in parte autobiografico - Ritorno al mittente per i tipi di Lapis, poi la ristampa per Motta junior del bell’albo illustrato Talpa lumaca pesciolino, con disegni di Nicoletta Ceccoli, per finire con due pubblicazioni molto particolari, L’invenzione degli alberi da 7 a 21, un albo di Notes edizioni fra poesia e arte, e l’omaggio a Collodi con Storia della storia di Pinocchio, Instar Libri.
Il romanzo in breve: Emilio, pittore e narratore che ha smarrito la memoria, approda fuori stagione in una cittadina di mare e si installa nell’albergo gestito dalla madre di Milo, un bambino solitario. Bambino e uomo, entrambi attratti dal profilo di un isolotto al largo della costa (Chi ci abiterà? Un fantasma del passato dimenticato di Emilio? Il padre di Milo, fuggito lontano?), intessono un dialogo fatto di disegni e racconti ad alta voce, in cui la realtà si intreccia ad una finzione di stampo avventuroso. Così pagina dopo pagina di un avvincente racconto nel racconto, scopriamo le sorti di Emilio Taverna, mezzo marinaio mezzo pittore, incaricato di eseguire il ritratto del figlio del conte poco prima che il bambino sparisca misteriosamente da corte. Sarà lui il misterioso ragazzo selvaggio che molti anni dopo ricompare nel bosco? Che fine ha fatto il ritratto del bambino? Chi, se non Taverna, è in grado di riconoscere il volto del ragazzo perduto?
È stata una sorpresa trovare, fra le tante sfaccettature del romanzo (sentimentali, avventurose, poetiche), anche una vena malinconica, che meno ci si aspetterebbe da uno scrittore dallo stile spesso ironico e giocoso (Il libraio sotterraneo, Ranocchi a merenda, Fuori il rospo, Briz). Il protagonista Emilio è un artista senza memoria che, con essa, ha perso anche la traccia dei racconti e delle immagini che ha creato, ridotti a ricordi vaghi che non gli appartengono più. Alla fine è capace di ritrovare il piacere di narrare e, in questo modo, di ricominciare una nuova vita, ma il racconto che egli dedica al suo piccolo amico Milo non è conciliante: il mistero del ragazzo selvaggio e del suo ritratto non si risolve, così come è impossibile afferrare i fantasmi che vivono nell’immaginazione e nei sogni del bambino. Una conclusione che emoziona molto di più di un lieto fine.
Scavando un po’ fra le pagine degli altri romanzi dell’autore, noti e meno noti, L’ultimo lupo mannaro in città, Il fantasma del generale, Cronache di Pontecambio (ingiustamente fuori catalogo), ci si imbatte spesso nella stessa atmosfera, in luoghi fuori dal tempo, personaggi che abitano sul sottile confine che separa il mondo delle fiabe e delle leggende dalla realtà. Lupo percorre la città di notte in attesa di incontrare il suo destino, quello di un lupo mannaro a cui nessuno crede più; il fantasma del Generale del Risorgimento che infesta Vallevecchia “svanisce” non appena si scopre che la sua presenza cela una realtà ben più sorprendente del sovrannaturale; l’età d’oro del paese di Pontecambio e delle sue cronache termina nel momento in cui la gente del villaggio smette di credere all’esistenza di un mostro che forse non è mai esistito. Il tempo non si ferma nel momento in cui si pronuncia “e vissero tutti felici e contenti”, ma passa e trasforma i destini favolosi in una più prosaica realtà.
Ho domandato a Guido Quarzo da dove nascono queste particolari storie:
La scrittura ha sempre in qualche modo a che fare con la memoria; la narrativa nasce come esigenza di costruire una specie di diga nel tentativo di fermare l'inesorabile trascorrere del tempo. La scrittura può essere una fuga, un nascondiglio dove ci rifugiamo perché non possiamo sopportare che tutto scorra via senza lasciare tracce. Insomma, le storie in qualche modo razionalizzano una condizione che è umana, di tutti: la condizione del continuo cambiamento.In Cronache di Pontecambio, il protagonista racconta che da giovane egli poteva scegliere se essere ragazzo o cavallo. Ci sono momenti nella vita in cui si aprono possibilità apparentemente infinite ma segnati contemporaneamente dall'incertezza, dall'indeterminatezza. Poi in altri momenti sembra che i giochi siano fatti, abbiamo l'impressione di aver raggiunto una stabilità. Ma è solo apparenza, basta un soffio di vento e tutte le nostre certezze vanno all'aria. Le storie forse ci tengono allenati al cambiamento e nello stesso tempo ci offrono qualche punto fermo.Quando ho scritto L'ultimo lupo mannaro in città avevo poco più di quarant'anni e mi sembrava di essere a un punto nodale della mia vita, come se iniziassi in quel momento a invecchiare. Se non l'avessi scritto allora, non l'avrei scritto mai. Con Il bambino che guarda l'isola mi accorgo di aver dato molto più spazio alla possibilità di ripartire sempre, di reinventarsi; anche se l'altra faccia della medaglia è che a certi errori non si pone rimedio, con i nostri errori bisogna anche convivere.
Ne Il bambino che guarda l'isola, oltre ad un chiaro omaggio alla leggendaria figura del ragazzo selvaggio, riecheggia la fascinazione per i classici racconti d’avventura come L’isola del tesoro, e i pirati -presi sul serio o no- tornano in molti romanzi e rime di Quarzo (Pirati a Rapallo, Rime piratesche, Chi trova un pirata trova un tesoro). E spesso nei racconti dell’autore fanno capolino i personaggi delle fiabe, anche quando meno te lo aspetti. Come scrittore, per quali motivi cimentarsi con la riscrittura dei classici, e con che riscontro presso i lettori?
Tante volte si scrive anche perché si è subito il fascino di un destino, di una situazione. Il ragazzo selvaggio per esempio è una figura problematica perché ci mette di fronte all'interrogativo mai risolto: quanto di ciò che siamo lo dobbiamo agli altri, all'ambiente, alle circostanze e quanto invece è da imputarsi alla nostra natura.Le fiabe sono un enorme serbatoio di situazioni, “catalogo dei destini” diceva Calvino. Ci sta dentro tutto il possibile e tutto l'impossibile, c’è una sapienza narrativa consolidata nel tempo che mi pare la base del raccontar storie. Il famoso “patto tra lettore/ascoltatore e narratore”, la sospensione del giudizio di verosimiglianza, nasce lì.E' possibile che un vecchio lupo mannaro si smarrisca fuori dalla propria storia? Se accetti questa possibilità, posso raccontare la mia storia.. a patto che non ti chieda di accettare possibilità inaccettabili. Parliamo di possibilità narrative, all'interno di una logica del racconto. Pinin Carpi era molto bravo a giocare a carte scoperte in questo senso: in un racconto ad un certo punto parla di una dispensa in mezzo alla giungla. “Ma nella giungla non ci sono le dispense” dice subito dopo, facendo sua la possibile obiezione del lettore. “Be' in quella giungla sì” conclude. Come dire: se stai al gioco ti diverti, questa è la condizione.E poi c'è una specie di continuo affanno di cimentarsi con il già scritto, con il già detto ma in maniera diversa. Certe volte è come avere in mente una specie di lettore ideale, che ha letto le stesse cose che hai letto tu e allora ti metti a giocare con lui a ribaltare le storie… ma credo che sia soltanto una bella illusione. Comunque anche la riscrittura è un modo per mettere in moto il meccanismo della narrazione. Qualche pretesto bisogna pur trovarlo!
Ma è curioso che l’alter ego dell’autore in Il bambino che guarda l'isola non sia uno scrittore, bensì un pittore, i cui disegni, visti con gli occhi di un bambino, danno vita a luoghi e personaggi incredibili. La fascinazione per il disegno e il sua potere quasi "sovrannaturale" di creare mondi era la molla narrativa anche di Sogno, disegno, matita di legno. È naturale che mi sia domandata in che rapporto è Guido Quarzo con il disegno e l'illustrazione.
E' vero che il disegno mi interessa molto: le prime narrazioni erano disegnate, pensiamo anche alle storie come si possono leggere in certe pale del tre/quattrocento. E poi c'è la mia passione per il fumetto, che ha attraversato tutta la mia infanzia. Da insegnante, una delle collane che ho più amato è stata "L'arte per i bambini" diretta da Pinin Carpi: era bellissimo questo scambio tra narrativa di parola e racconto di immagine. Mi interessano le contaminazioni, da sempre.
E a proposito di contaminazioni di linguaggi, leggendo Quarzo è spesso la poesia, la filastrocca, a contaminare la prosa, oltre a vivere di vita libraria propria in molte raccolte. A costo di sembrare irriverente, ho domandato se per l’autore l’uso delle filastrocche è "vero amore" o è eredità del mestiere di insegnante: si sa che le rime sono sempre un ottimo strumento, e molto usato, per far gustare le parole e la lettura ai bambini che iniziano a leggere.
Guido Quarzo, torinese, laureato in pedagogia, ha lavorato per molti anni nella scuola elementare come insegnante. Si è occupato di teatro per ragazzi, scrivendo testi e organizzando laboratori e spettacoli. Dal 1989 ha iniziato a pubblicare racconti e romanzi per bambini e ragazzi con i quali ha vinto numerosi premi letterari, fra cui nel 1995 il Premio Andersen come migliore autore dell'anno. Nel 1999 ha lasciato l'insegnamento per dedicarsi completamente alla scrittura; è autore di oltre sessanta titoli, pubblicati dai maggiori editori italiani, fra raccolte di poesie e filastrocche, albi illustrati, racconti brevi, romanzi e testi teatrali.La filastrocca mi permette di rallentare il ritmo narrativo, di introdurre una voce nuova, una specie di voce fuori campo che scandisce la narrazione. A volte corrisponde a una dissolvenza cinematografica, come quando in “Il Taglialegna che andò a Milano” [racconto contenuto in Draghi, briganti e figlie di re] sintetizzo il girovagare del protagonista mettendolo in versi, suddivisi in stagioni. Per la primavera, l'estate e l'autunno dico:“mangiò il pane/ la camicia lavò/ ma di fortuna/ non ne trovò”. Infine per l'inverno: “non c'è più pane / l'acqua ghiacciò / cammina cammina / a Milano arrivò”.Insomma il taglialegna arriva a Milano che non ha più risorse, niente da perdere, disposto a tutto e anche un po' disperato, ma non c'è più bisogno di dirlo è già tutto sintetizzato nella filastrocca.E poi c'è anche la rima, che una volta serviva soprattutto per ricordare ma era anche un gioco (e continua ad esserlo). Io credo che sia una delle invenzioni più geniali della lingua. Le rime hanno una potenzialità fortissima: basta pensare a quanto ci dà fastidio una rima involontaria...e a quanto ci ricordiamo una rima azzeccata, al posto giusto. Rima e ritmo."D'ambo i lati calpesto rimbomba / quattro terzi pi greco erre tre!" L'unico modo che mi permette di ricordare il volume della sfera.E allora ecco una poesia, tanto per ricordare.ROSPO (pensando a Toti Scialoja)la poesia è un rospoun rospo fuori sestomezzo allegro e mezzo mestola poesia è un rospoche canta dentro il pozzomezzo saggio e mezzo pazzola poesia è un rospoche beve nero inchiostroe non pensa d’esser rospo.
Virginia Stefanini